(Gloria Benini) Livorno, 4 agosto 2023 – Domani, sabato 5 agosto, ricorre il ventesimo anniversario della scomparsa di Carlo Coccioli, forse il più grande scrittore nato a Livorno, uno dei pochi di caratura internazionale, sicuramente l’unico il cui nome sia stato accostato, quando era in vita, al premio Nobel per la letteratura.

Coccioli scriveva fluentemente in italiano, francese e spagnolo ed i suoi libri sono stati tradotti in una ventina di lingue del mondo. Era un uomo di grande cultura ed intensa spiritualità. Nella sua vita ha attraversato e praticato ben quattro religioni: cattolica, ebraica, induista e buddista. Era il traduttore di sé stesso, almeno nelle edizioni da e per italiano, spagnolo e francese.

Tra le sue opere più famose vi sono “Il cielo e la terra” del 1950, “Fabrizio Lupo” del 1952, “L’erede di Montezuma” del 1964, “Documento 127” del 1970, “Uomini in fuga” del 1972, “Davide” del 1976 con cui fu finalista al Campiello e vinse il premio Basilicata, “Piccolo Karma” del 1987, “Budda” del 1990, “Tutta la verità” del 1995, “San Benjamin Perro” del 1998.

Coccioli, nonostante sia stato un grande scrittore, è oggi abbastanza dimenticato, soprattutto in Italia, dove però ha vissuto poco, avendo trascorso la gran parte della sua esistenza in Messico, anche se in Italia ha sempre mantenuto una casa, prima a Firenze e poi a Livorno.

Coccioli, nato a Livorno il 15 maggio 1920, è scomparso a Città del Messico il 5 agosto 2003. È sepolto nel villaggio di Atlixco, nello stato di Puebla, ma aveva espresso il desiderio di essere seppellito nella cappella della famiglia della madre, Anna Duranti, a Livorno.

Per ricordare questo scrittore nel ventesimo anniversario della scomparsa, abbiamo intervistato il giornalista Marco Ceccarini, che lo conobbe e lo intervistò diverse volte, tra il 1994 e il 1995, quando abitò a Livorno. Fu proprio Ceccarini, al quale lo scrittore regalò i libri che aveva nella casa di scali delle Ancore in Venezia, ad accompagnarlo all’aeroporto di Pisa quando lui e il figlio adottivo Xavier Coccioli decisero di lasciare definitivamente l’Italia.

Marco, tu hai conosciuto ed intervistato Carlo Coccioli, del quale domani cadrà il ventennale della scomparsa. Che ricordo ne hai?

“Ho conosciuto Carlo poco dopo che, ai primi del 1994, con il figlio Xavier aveva preso casa sugli scali delle Ancore. Andai da lui per un’intervista ma anche per conoscere quello che, secondo me, era ed è il più grande scrittore nato a Livorno, autore tra l’altro di un bellissimo brano sulla sua città, che poi è anche la mia”.

Cosa diceva in quel racconto?

“Era la prefazione alla voce Livorno di un’opera a fascicoli sulla Toscana. In poche pagine riuscì a descrivere l’anima livornese in modo pressoché perfetto”.

Eppure, nonostante sia conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, Coccioli in Italia non ha mai goduto di quella straordinaria popolarità di cui ha invece beneficiato altrove. Come mai?

“Forse c’è qualcosa che non funziona nel mondo culturale del Belpaese perché ‘lo scrittore al macero’, come si autodefinì quando seppe che una casa editrice italiana aveva mandato al macero ben duemila copie di un suo libro nonostante non vi fosse un problema di vendite, è in realtà amato da molti lettori anche in Italia. Va reso merito al nipote, Marco Coccioli, che sta facendo un grande lavoro per valorizzare non solo la memoria ma anche e soprattutto l’opera letteraria dello zio”.

Il nome di Coccioli è stato accostato per ben tre volte al Nobel per la letteratura…

“Esatto. Quando l’ho conosciuto, sapevo che il nome di Carlo era girato, negli anni Settanta, in relazione al premio Nobel. Ero molto incuriosito dalla possibilità di conoscere un personaggio del genere, uno scrittore, oltretutto livornese, che per quanto conosciuto e onorato nel mondo, soprattutto in America Latina e in Messico, era quasi completamente ignorato in Italia e in particolare a Livorno”.

Il critico letterario ed accademico Carlo Bo lo definì ‘uno scrittore alieno’, Curzio Malaparte disse che i suoi dialoghi erano ‘taglienti, intensi, anche allucinanti’, mentre Pier Vittorio Tondelli lo nominò ‘lo scrittore assente’. Quale delle tre definizioni, secondo te, è più appropriata?

“Tutte e tre sono fondate. Ma forse, dovendone indicare una, sceglierei quella di Tondelli perché Carlo aveva davvero la capacità di essere sulla scena letteraria italiana nonostante vivesse a migliaia e migliaia di chilometri di distanza”.

Ma chi era, davvero, Carlo Coccioli?

“Era una persona estremamente semplice che non ebbe problemi a dare a me, giovane cronista, la sua disinteressata amicizia. Anche il figlio adottivo era una persona semplice e cordiale, oltre che un ottimo cuoco. Questo, per me, era Carlo Coccioli. Una persona di grande cultura e di elevata spiritualità”.

Sapeva essere forte con i forti e debole con i deboli?

“Se ti ponevi con ‘animo lindo’, come diceva lui stesso, era pronto a mettersi dalla parte di chi deve imparare. Ma se ti ponevi in modo supponente o superbo, se eri altezzoso, ti gettava contro tutta la sua cultura, i suoi titoli, tutta la forza delle decine e decine di sue pubblicazioni tradotte in tutto il mondo”.

È vero che la sua casa livornese fu anche un luogo di incontro per intellettuali, uomini e donne di cultura, animatori della vita culturale toscana?

“Direi di si. A casa sua conobbi alcuni importanti esponenti della vita culturale toscana e livornese della metà degli anni Novanta. Penso, ad esempio, a Tullio Ristori, Donatella Ciullini, Walter Martigli e Paola Ricci, con la quale ho anche scritto un e-book tre anni fa in occasione del centenario della nascita. È stata, quella, un’esperienza che mi ha formato molto sul piano personale e culturale”.

I critici affermano che Coccioli ha avuto il merito di introdurre nei propri romanzi il tema dell’omosessualità in una poetica di conciliazione con la fede…

“È stato un precursore. Però va anche ricordato che, in tempi assai diversi da oggi, ha pagato duramente questa sua scelta letteraria. Non bisogna dimenticare che, visto lo scalpore che suscitò fin da subito con i suoi romanzi, agli inizi degli anni Cinquanta dovette abbandonare l’Europa per trasferirsi in America, prima in Canada e Bolivia, infine in Messico, dopo che sul finire degli anni Quaranta aveva abbandonato l’Italia per la Francia”.

Cosa deve, secondo te, la cultura italiana a Coccioli?

“Credo che la cultura e la società italiana, più in generale europea, debbano molto a Coccioli. Non solo ha avuto il coraggio di parlare in modo esplicito nei suoi romanzi dell’omosessualità, ma è stato anche uno dei primissimi a trattare il tema dell’alcolismo ed è stato un antesignano dell’animalismo. Era un grande cinofilo e nel testamento ha disposto un lascito a favore della lotta alla vivisezione animale. Molti suoi romanzi sono pervasi dalla sua esperienza religiosa in sovente mutazione. Il suo percorso di vita è stato anche e soprattutto un percorso spirituale”.

Cosa conservi della sua amicizia?

“Ho sempre rispettato la sua omosessualità come lui ha sempre rispettato la mia eterosessualità. Dico questo perché il senso del rispetto e la capacità di parlare di tutto e del contrario di tutto senza pregiudizi sono forse gli aspetti che maggiormente ricordo della sua persona. Sono molto orgoglioso dell’amicizia ricevuta da lui. Nonostante la differenza di età, nonostante la diversa formazione culturale, nonostante idee politiche diverse, fummo sinceri amici. Tanto che, quando tornò in Messico, volle che ad accompagnare lui e Xavier all’aeroporto di Pisa fossi io. Ricordo che prima di condurlo all’aeroporto facemmo il giro dell’intera Livorno. Volle vedere, dai finestrini dell’automobile, i luoghi a lui più cari della città per portarli con sé nel cuore fino in Messico. Tra questi, via Magenta con la bottega di Carlino e gli scali Novi Lena con la casa in cui era nato”.

Livorno gli ha intitolato una strada e gli ha conferito la Livornina d’Oro alla memoria. Adesso, però, potrebbe essere scoperta una lapide in suo onore al Famedio di Montenero. Ti risulta?

“Si, non distante dagli scali Novi Lena, dove nacque, da qualche anno esiste una strada che porta il suo nome. Inoltre gli è stata conferita la Livornina d’Oro alla memoria. A Livorno gli è stato anche attribuito il premio Lions. Tuttavia, come hai detto, potrebbe essere presto apposta una lapide al Famedio di Montenero in suo onore. Il Rotary Livorno è disposto a realizzare la targa ed a farne dono al Comune di Livorno che, a quanto mi è stato detto al Rotary, è d’accordo”.

Il ventesimo della scomparsa poteva essere l’occasione giusta, non trovi?

“In effetti, si. Ma credo che solo delle questioni meramente burocratiche, non la cattiva volontà, abbiano impedito di realizzarla per questa data”.

Coccioli, con Livorno, è stato generoso. È così?

“Quando risiedeva a Livorno regalò tutte le sue opere letterarie al Comune. Mi occupai personalmente di quel dono aiutando l’architetto Martigli che sbrigò la questione sul piano istituzionale. Ma soprattutto, a quanto ne so, nel testamento ha fatto dono alla città del suo inestimabile fondo culturale. Si tratta di un lascito di grande valore. Mi risulta però che il fondo Coccioli sia ancora in Messico”.

In Messico?

“Da quanto ne so, è così. Ed è un vero peccato perché bisognerebbe trovare il modo di far arrivare a Livorno i manoscritti, i carteggi, le lettere ed i beni di vario tipo che compongono il fondo Coccioli, perché tutto quel materiale, che è di enorme valore, secondo le stesse volontà di Carlo appartengono ai livornesi e pertanto la comunità cittadina di Livorno deve prima o poi entrarne in possesso. Dispiace che siano già passati vent’anni”.

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